Stagioni Promesse

Stagioni promesse di Anna Albertano9788845613807-it

“Straordinariamente evocative e ‘taglienti’, le poesie di Stagioni promesse sono come rasoi che tagliano la quiete della mente per innescare dei ragionamenti, per aprire la strada al ricordo di cose mai viste ma presenti nella cruda realtà dei versi.”

“Le belle emozioni hanno bisogno della freccia giusta per sgorgare limpide nell’anima. Le parole di Anna Albertano hanno il dono di arrivare laddove sanno di trovare terreno fertile per germogliare in nuove emozioni, proprio come le ‘parole alate’ di omerica memoria, che avevano la preziosa carica emotiva capace di suscitare interesse e partecipazione nell’animo del lettore.”
                                         Luigi Perillo

Le Stagioni della Terra Promessa secondo Anna Albertano

“I versi di Stagioni promesse di Anna Albertano, quasi una mappa tracciata intorno alle percezioni di una terra vicina e insieme lontana, aprono a un mondo fitto di storie e variegate culture per dispiegarsi in una personalissima rappresentazione attraverso tappe diverse, con frequenti incursioni laiche in temi sacri.

La terra promessa e i suoi luoghi divengono una sponda verso cui fluisce come corrente una scrittura che insieme a toni biblici si fa eco di millenarie conflittualità e dolenti vicende intrecciate al presente.
Come suggerito dall’epigrafe, tratta da un ciclo di antichi e preziosi affreschi del Castello della Manta ispirati al romanzo di Tommaso di Saluzzo, non mancano riferimenti ad una visuale medievale, in cui la Terrasanta, oltre che luogo da riconquistare e meta di pellegrinaggio, è destinazione ideale, percorso iniziatico di cavalieri erranti e motivo d’ispirazione di troubadours.
Ma a conferma della costante esplorazione linguistica di Anna Albertano, in numerosi testi della raccolta, la parola poetica incontra la poesia dell’immagine cinematografica, e così sequenze, talvolta semplici frammenti, di opere palestinesi, siriane, libanesi, israeliane, irrompono per accenni nel tessuto dei versi, intrecciandosi ad altre evocazioni, tra cui il Vangelo pasoliniano, contribuendo a dare risonanza ad una pluralità di prospettive e tematiche sulla complessità del Medio Oriente.”

                                                                                                           Mauro Martini

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Pubblichiamo un estratto dell’incontro svoltosi lo scorso novembre alla Libreria Feltrinelli International di Bologna, tra Roberto Chiesi, Responsabile del Centro Studi Pier Paolo Pasolini e Anna Albertano in occasione della presentazione del suo volume di poesie Stagioni promesse (Campanotto Editore), una raccolta di versi che si rivolge alla “Terra promessa”, da millenni contesa tra popolazioni diverse e attraversata da ricorrenti conflitti.

Per presentare Stagioni promesse, forse la cosa migliore è presentare il lavoro tuo che precede questo libro, pieno di echi di esperienze diverse, avvenute nel corso degli anni
Sì, in effetti questa raccolta nasce molto tempo fa, all’inizio degli anni ottanta, quando mi sono affacciata alla realtà araba, a cui nel tempo ho dedicato opere diverse, racconti, mediometraggi, traduzioni e incontri con scrittori e registi cinematografici. A distanza di molti anni, durante i quali ho scritto romanzi e poesie inerenti al teatro, alla mia terra d’origine, ad altre culture, son tornata su questi temi con un approccio forse diverso, se infatti negli anni ottanta avvertivo l’esigenza di dar voce a realtà che altrimenti non ne avevano o non ne avevano abbastanza, col tempo atttraverso il web e di recente con le Primavere  Arabe si sono affacciati molti nuovi protagonisti, testimoni in prima persona di ciò che raccontano. Come accenna il titolo Stagioni promesse, quella terra è stata oggetto di promesse, bibliche e terrene, che riguardano la cultura ebraica e quella cristiana oltre a quella araba, così nei vari testi ho voluto aprire ad una pluralità di prospettive che affrontassero scorci diversi di quelle promesse.
Per cominciare ad inoltrarci nelle tue liriche, puoi raccontare un po’ come sono avvenuti i tuoi approcci col mondo arabo, i tuoi viaggi, quali sono state le emozioni più profonde, le scoperte che hai fatto in quel periodo. Tu scrivi: Istantanee sfocate/di stagioni perdute/di appuntamenti/ tra altre possibili storie…
Nei miei primi anni universitari, era il 1983, ho conosciuto studenti palestinesi, attraverso loro mi sono accostata alle vicende travagliate della loro terra, all’anno prima risalivano le stragi nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila a Beirut. Seguire quelle vicende da una visuale interna, non con un’ottica occidentale, è stato sicuramente di grande impatto. Nel frattempo i miei amici hanno lasciato l’Italia, e nell’88 ho realizzato un mediometraggio sulla prima Intifada, un paio di anni dopo ho cominciato a collaborare con riviste lettararie e ho avuto l’opportunità di conoscere scrittori di quell’area, li ho presentati su riviste italiane traducendo loro racconti, io stessa ho scritto racconti riguardanti il mondo arabo, la prima guerra del Golfo, poco dopo sono iniziati incontri con registi cinematografici arabi. A partire da quegli anni, di viaggi ne ho fatti diversi, in Medio Oriente e nel Nord Africa, ma tranne in alcuni casi, ad esempio con il Premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz al Cairo, gli incontri con scrittori e registi arabi si sono svolti quasi tutti in Europa, a Parigi, alcuni erano esuli, altri vivevano lì da tempo, o tra il Belgio e la Francia.
E qual è il tuo rapportocon la loro letteratura e la loro lingua, con la loro cultura, perché noi continuiamo con la nostra assurda visione eurocentrica e trascuriamo o sottovalutiamo il rapporto con l’altro, tu invece ti sei avvicinata a questo altro mondo, all’altro…
Sì, è vero, in Francia scrittori, artisti arabi francofoni, che vivono lì da generazioni, sono molto più presenti e hanno interagito con la cultura di adozione, ma non è così da noi, almeno non lo era allora. Quando ho conosciuto questi scrittori e cineasti, per me è stata un’apertura, un respiro, rispetto all’aria un po’ asfittica italiana, come scrivo in un testo: Una lontananza/da sovrapporre al presente…, ho trovato in loro, in alcuni in particolare, libanesi, algerini, siriani, una grande capacità di elaborare forme espressive della propria lingua -che si trattasse della scrittura narrativa o del linguaggio visivo-, del tutto innovative, in cui oltre al recupero della memoria, l’interrogarsi su questioni fondamentali, relative alla propria storia, identità, emergeva la forza di una poesia che nasceva dalle macerie, dalle rovine, la capacità di ritrovare tensioni ideali anche partendo da situazioni davvero difficili, il saper portare una nuova sensibilità nel solco della propria cultura.
Tu hai già pubblicato poesie in antologie e anche su riviste, questo libro è l’occasione di riunire tutta una serie di versi. Quali sono state le fasi diverse del tuo rapporto personale con la poesia, come lettrice, traduttrice e poi come autrice?
Io mi sono laureata al Dams in Drammaturgia, i miei interessi erano rivolti a forme di teatro che comprendevano poesia, prosa, tradizione orale, musica, senza preclusioni nei confronti dei diversi elementi. Allo stesso modo mi sono affacciata alla conoscenza della letteratura, della storia e realtà araba. All’inizo degli anni novanta, collaborando con riviste letterarie leggevo molto materiale che arrivava in redazione, ma a suscitare il maggior interesse è stato proprio l’incontro con scrittori di quell’area che affrontavano temi dolenti, a me ormai familiari, perché è stato anche un  motivo di riflessione su aspetti autobiografici irrisolti, in Sepolto il sole scrivo: Le vostre guerre/ incontravano la mia… e così effettivamente è stato. La scrittura per me è nata e via via si è delineata dal confronto con realtà difficili, un confronto che mi ha indotta a fare i conti con temi primari, ad una scelta di essenzialità. Credo altrettanto che nei miei testi, anche nei romanzi, la poesia abbia sempre un grande rilievo, come espressione soggettiva, dove prevale l’elaborazione tematica o linguistica rispetto allo sviluppo di un plot narrativo.
Una delle cose che colpiscono di Stagioni promesse è che nelle raccolte liriche c’è abitualmente un’assoluta preponderanza, dominio dell’io che guarda, sente e contempla quelli che sono gli abissi che stanno dentro di sé o intorno a sé, mentre nelle tue poesie tu lasci spazio allo sguardo dell’altro, in qualche modo nella tua démarche c’è la volontà di fare posto ad altre voci…
Sicuramente, questa raccolta documenta l’incontro con certe realtà, le frequentazioni, conoscenze che ne sono seguite, e compaiono come interlocutori figure reali e figure immaginarie. Tuttavia, anche se l’io non è palese, l’ìespressione interiore è sottesa in ognuno di questi testi. Ci sono alle volte condensazioni temporali, in alcuni testi che paiono ricostruire momenti del passato, in cui sono introdotte invece riflessioni contemporanee, o al contrario, viene aperto un dialogo con quello che parrebbe un determinato interlocutore, e si tratta invece di frammenti di dialoghi svoltisi in circostanze differenti, talvolta puramente ideali. In Tracce d’esilio ad esempio scrivo: Seduti/ uno di fronte all’altro/ a distanza di migliaia di chilometri… Dall’inizio alla fine è l’interiorità espressiva a tessere, intrattenere un filo con gli altri, a richiamarne la presenza, a incontrare i diversi convitati alla propria tavola…
A proposito dei riferimenti ai film, che sono delle rievocazioni, non citazioni, tu infatti non citi, qual è la funzione espressiva che vengono ad avere nei tuoi versi?
Le pellicole cinematografiche per me sono state un  veicolo di apprendimento fondamentale, hanno segnato un percorso conoscitivo. Se il mio primo impatto con quel mondo è avvenuto indirettamente, attraverso il racconto di amici studenti, è principalmente grazie a film arabi, che ho cominciato a vedere qualche anno dopo, che mi sono accostata al mosaico mediorientale, alla sua complessità. Alcune pellicole mi riportavano all’incontro con loro, a emozioni di allora quando ad esempio seguivamo insieme riprese televisive di bombardamenti nel corso della guerra in Libano, come scrivo in Stagioni dissolte: Da quella zona cieca… riprendevamo a guardare…, ai nostri successivi scambi epistolari, ricalcavano situazioni in qualche modo vissute. In questa raccolta sono presenti molti film, ne viene richiamato il titolo,  o vi entrano delle sequenze, ma non sono citazioni, più che rimandare a quelle opere sono divenuti riferimenti autobiografici, molti versi sono composti su certe sequenze filmiche perché attraverso quelle immagini ho recuperato la memoria di quel tempo, di quell’incontro. Altre immagini o sequenze sono relative a pellicole di registi che ho conosciuto, a proposito delle quali ho scritto.
Come lettore io ho percepito una tonalità che percorre la maggior parte delle poesie, ed è una tinta che definirei di dolorosa disillusione, che deriva da un’esperienza pluridecennale di rapporto diretto con questo mondo, coi drammi, con le tragedie di queste tante guerre. Mi riferisco in particolare a certi versi, ad esempio, quando in Beirut un incontro scrivi: C’è chi/ giocando alla guerra/ s’è giocato la vita… Cos’hai fatto in questi anni?/ Ho imparato a morire…
Sì, i versi di Stagioni promesse hanno un carattere evocativo, sono dedicati a persone che non ci sono più, e sono rivolti a figure appartenenti a certe generazioni, ad opere in cui prevale un senso di sconfitta. Beirut un incontro, che è anche il titolo di un film, richiama un incontro avvenuto realmente a Beirut molti anni dopo la fine della guerra e dopo un incontro avvenuto in Europa. E rielabora il senso di più pellicole su temi analoghi, riflessioni sul tempo perduto, sul senso di fallimento, di esasperazione e lacerazione di persone che hanno speso gli anni migliori della vita in una guerra senza fine, che per molti ha voluto dire l’esilio, la separazione da amici, familiari e spesso un’incolmabile distanza che nel frattempo si è interposta fra loro. Situazioni terribili che oltre a ripercussioni materiali, hanno avuto ripercussioni nel vissuto delle persone, che permangono con la fine della guerra, in realtà tuttora latente, in un paese in cui resta difficile pensare ad un futuro di pace.
Ti chiederei di commentare brevemente alcuni versi, il finale di L’anno prossimo a Gerusalemme, mi sembra molto bello…
Legati a un suolo tanto ambito/ su cui ciascuno/ pietra dopo pietra/ ha edificato la propria storia/ sopra quella dell’altro/ non c’è posto per altra memoria… L’anno prossimo a Gerusalemme è l’augurio della Pesach, la Pasqua ebraica, augurio che nella diaspora gli ebrei si sono sempre rinnovati. Il suolo tanto ambito è lo spazio in cui a Gerusalemme sono condensati i principali luoghi di culto dei tre più grandi monoteismi, e che ha visto nei secoli, nei millenni, tentativi ripetuti da parte di ciascuna delle tre componenti di prevaricare, di annullare con l’edificazione dei propri templi, dei propri simboli, la storia dell’altro.
E invece l’immagine della ragazzina che tu descrivi in Sulla via di Damasco, è un ritratto molto vivo.
Alle volte, nei miei testi il riferimento alle Sacre Scritture riporta alla complessità del presente. Qui il richiamo all’illuminazione sulla via di Damasco, più che alla conversione di Paolo, Saulo di Tarso, si riferisce a quella sinstra illuminazione e grande suggestione esercitata dai kamikaze nei confronti di molti adolescenti nel mondo arabo, e i versi sono ispirati alla figura di una ragazzina che ho incontrato a Damasco sulla porta della moschea degli Omayyadi.
Ma per quanto riguarda la genesi, l’officina di questo libro, come hai lavorato alle poesie, le hai scritte nell’arco di molti anni, come hai proceduto?
Come ho accennato prima, è stato un intrecciarsi di vicende artistiche e biografiche, una stratificazione temporale, di sedimenti di materiale diverso. Mi son trovata a lavorare molto sulla memoria, avevo appunti, annotazioni che risalivano a tempi differenti. E le ho composte in momenti successivi. Alcuni testi riguardano espressamente il mio incontro palestinese, avvenuto ormai trent’anni fa, ma filtrato da altri elementi, perché è solo col tempo che sono tornata a quelle tematiche, è attraverso opere letterarie e filmiche che ho recuperato quel tempo, la memoria di quell’incontro. Una memoria nella memoria. Altri testi sono legati a viaggi, iniziati a metà degli anni ottanta, altri ancora riflettono incontri successivi con scrittori o cineasti, ma spesso le varie componenti s’intrecciano, come tasselli di un puzzle, in cui ad un filo autobiografico, s’intrecciano suggestioni diverse, bibliche, letterarie, filmiche.
Per questo hai scelto la poesia per quest’opera?
Sì, non ho voluto escludere una pluralità di prospettive, c’è ad esempio un testo che rimanda al Vangelo secondo Matteo, in cui il riferimento all’opera di Pasolini riguarda soprattutto quel senso di imminenza e di vigilia che hanno molte liturgie e festività cristiane, l’attesa del compiersi delle Scritture. Ci sono in altri testi riferimenti ai cristiani, ai copti, minoranza cristiana in Egitto, agli armeni scampati al genocidio ad opera dei turchi, che vivono nel nord della Siria. Dal richiamo a pagine dell’Antico e Nuovo Testamento si passa alla contemporaneità. Lavorando di recente ad un testo sul Medioevo, mi sono resa conto dello stretto legame che l’Europa aveva sin da allora, attraverso il cristianesimo, con il Medio Oriente. La Terrasanta rappresentava una meta ideale in molta letteratura medievale, meta di percorsi iniziatici, in Grazal ne dò cenno. Per questo insieme di risonanze, ho preferito una composizione in versi. Per un riferimento alla tradizione poetica araba, ricchissima nella sua espressione profana, che si avvale della mistica, e anche per la predominanza dell’elemento lirico in molte delle opere filmiche e letterarie arabe che mi hanno avvicinata a quel mondo. I miei versi contengono un mosaico di molteplici riferimenti, anche simbolici a mondi, a culture, che forse non si colgono alla prima lettura. Rispecchiano quella terra, la sua storia, come io l’ho percepita.

“Magazine” n.49/50 settembre-dicembre 2014